Vinco e me ne vado (L’Espresso 1967)

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Lo scrittore e il generale: Parise intervista Westmoreland – da L’Espresso del 7 maggio 1967.

Mi riceve, sa che non sono un giornalista. Gli dico che gli americani mi sembrano come gli antichi romani in Gallia. Mi guarda contrariato

SAIGON – La prima volta che lo vidi, il generale William Childs Westmoreland, quattro stelle, comandante supremo delle forze americane nel Vietnam e probabile candidato alla Casa Bianca per le elezioni del 1968, era in smoking. Uno smoking così rigido, così glacialmente impeccabile, ed un volto così immobile, sorridente, pubblicitario, con il suo bicchiere scintillante di whisky ambrato e ghiaccio, da creare subito in me alcune associazioni. Questa, per esempio, d’un militare che è al tempo stesso un uomo-pubblicità per una nota marca di whisky. Quante volte avevo visto quello stesso uomo, con quello stesso smoking, nelle pagine pubblicitarie delle riviste americane?Lo guardai a lungo, scambiammo qualche parola. Osservai i suoi occhi: grigio-azzurri, essi erano in ombra sotto le nere e folte sopracciglia che s’arricciavano alla base della fronte; e quegli occhi emanavano una luminosità di fosforo, che suggeriva e voleva suggerire non soltanto autorità, ma qualcosa di più intenso e quasi doloroso che assomigliava alla vocazione religiosa. Dunque, non era più soltanto un generale e un modello pubblicitario, ma qualcosa di assai diverso da entrambi e sotto molti aspetti inconciliabile. Lo guardai muoversi: da fermo il suo corpo alto, forte e virile era quello d’un atleta classico, d’un discobolo; in movimento virilità, forza, classicità di colpo scomparivano e si tramutavano nella loro convenzione più banale e pubblicitaria. Insomma non un’immagine in serie, ma una serie d’immagini in serie, che via via si sostituivano e si completavano.

Poi l’ho visto una seconda volta. Un appuntamento al suo quartier generale che mi ha accordato perché l’ambasciatore d’Italia Giovanni D’Orlandi è riuscito a presentarmi a lui come scrittore e non come giornalista, importante differenza perché Westmoreland non riceve mai i giornalisti stranieri. Ora sta di fronte a me, vestito della semplice uniforme di combattimento di tutti i soldati americani in Vietnam: stivaletti di tela verde e cuoio nero, lucidissimi, pantaloni rimboccati con tasche dappertutto, casacca con altre tasche, maniche rimboccate fino quasi all’ascella, il nome stampato in nero sul taschino destro. Accanto a lui, per complicare le cose o per meglio dire le visioni, un altro generale, alto come lui, forte come lui, vestito come lui, autoritario come lui.

I nove comandamenti

Il generale finalmente sorride, entrambi sorridono nello stringermi la mano. Osservo le labbra dei due che s’aprono su denti bassi, larghi, di marmo: un’iterazione visiva, una legione romana. Sediamo infine nell’ufficio del comandante. Una scrivania dietro cui s’innalzano labari e bandiere, due poltrone, un divano, coppe, vittorie alate, decorazioni. Una fotografia technicolor di Johnson con dedica a pennello stilografico. Moquette. Oltre le due piccole finestre, l’intrico dei cavi telefonici, telegrafici, ponti-radio. (…)

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