di Cesare Cremonini (per le Buone Notizie via Corriere.it)
«La musica è morta», dicono in tanti. A volte però sono gli stessi che durante un concerto alzano il cellulare presi dall’irrefrenabile voglia di condividere un’esperienza, rischiando così di perderla. «La gente ormai non ascolta più», «la nostra società è allo sbando», dicono altri. Io non credo a nessuna di queste posizioni ma, connettendole tra loro come due o più voci in una stessa partitura musicale, può essere che chi sostiene queste tesi ci abbia suggerito alcune riflessioni importanti: che relazione esiste tra la nostra società e la musica? Quanto e cosa ancora può fare la musica per noi?
Viviamo in un periodo fortemente legato all’immagine, la musica oggi viene ascoltata in buona parte attraverso canali come YouTube o affini, che permettono di «guardarla» piuttosto che ascoltarla. Non ci sarebbe nulla di male, d’altronde fin dalla prima infanzia educhiamo istintivamente i nostri bambini ad affidarsi alla propria vista per sopravvivere e crescere: «Tenete bene gli occhi aperti, là fuori!». A me sembra che in questa frase si nasconda l’ingenua sopravvalutazione dell’importanza degli occhi rispetto alle nostre povere orecchie, che come sappiamo invece funzionano anche in assenza di luce, e sono generosamente aperte 24 ore su 24, domeniche comprese.
Ma una società dell’immagine non è soltanto il sintomo di un’epoca caratterizzata da un velocissimo sviluppo tecnologico, il che è positivo. Allo stesso tempo agisce come un buco nero culturale capace di risucchiare dentro di sé ogni forma d’arte ed espressione artistica incasellandola sotto l’ambigua voce di «intrattenimento».
«La musica aiuta a non pensare», sostengono alcuni. È vero anche questo? Tutti sappiamo che la sua potenza ipnotica fornisce elementi grandiosi con cui alleviare la nostra esistenza dalla fatica del vivere, ma oltre a questo credo sia uno strumento molto prezioso grazie al quale possiamo imparare a conoscere e accettare qualcosa di noi stessi, degli altri, della società, in altre parole, dell’umanità. A volte è una questione di scelte individuali, ma non dobbiamo dimenticarci della responsabilità politica.
Da tempo, come ci ricorda il grande pianista e compositore Daniel Baremboim nel suo libro «La musica sveglia il tempo», è in atto una disabitudine all’ascolto causata anche da un sistema di istruzione che ha separato la musica dalla formazione dell’individuo, dimenticando o facendo finta di dimenticare che l’educazione alla comprensione, (della musica come dell’altro), è fondamentale per la sopravvivenza di una società.
I greci lo avevano capito e consideravano la musica una parte fondamentale della saggezza necessaria persino alle cariche pubbliche. Aristotele avrebbe forse disdegnato la musica classica, discriminato quella elettronica o snobbato il rap? Non credo.
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